Appunti sulla prima settimana della COP27 a Sharm El Sheikh (Egitto)
Pubblicato il 14 Novembre 2022
di Paolo Lauriola (Isde)
Questa è la prima volta che io partecipo “seriamente” ad una COP. Nel 2019 Sono stato invitato a parlare del progetto promosso da ISDE e FNOMCeO sui Medici sentinella per l’ambiente alla COP25 di Madrid, ma rimasi un solo giorno ed era un altro mondo.
La pandemia COVID-19 ancora non c’era, inoltre la COP25 di Madrid si è svolta in condizioni del tutto particolari. La conferenza doveva tenersi in Brasile nel novembre 2019, ma un anno prima dell’inizio previsto, il neoeletto presidente JairBolsonaro ha ritirato l’offerta di ospitare l’evento, adducendo motivazioni economiche. Il Cile si era fatto avanti per ospitare l’evento, ma le massicce proteste contro le disuguaglianze sociali organizzate in vista dell’incontro, lo hanno costretto alla fine di ottobre 2019 a ritirarsi. Quindi, per un comune accordo tra l’ONU, Cile e Spagna, quest’ultima è diventata il nuovo paese organizzatore. Il contesto comunque era di una grossa fiera.
In occasione della COP27 invece, grazie alla collaborazione di ISDE, che mi ha consentito di partecipare come osservatore, e alla Global Climate Health Alliance (GCHA), ho collaborato alla stesura di un documento che è ora in discussione alla COP27 e che è stato presentato al Presidente della Repubblica italiana Mattarella, al Presidente del Consiglio dei ministri, On G. Meloni e ai Ministri della Salute, Prof Schillaci e dell’Ambiente On Pichetto Fratin.
Arrivando qui, la prima sensazione che ho provato è stata quella di partecipare ad una iniziativa, che malgrado le fortissime attese, sarebbe stata poco risolutiva. Troppi gli interessi in ballo e troppo distanti tra loro. A questo si aggiungano le crisi: energetica, economica, politica e non ultima, la crisi microbiologica/epidemiologica da COVID-19.
Anche la realtà locale poi, era l’esatto opposto di quello che sarebbe stato ragionevole aspettarsi per ospitare una COP. Sharm El Sheikh è una citta turistica che mira ad uno sviluppo basato sul consumo “senza limiti”. Solo per fare un esempio, l’area della Conferenza Internazionale dove si è svolta la COP-27 è coperta da padiglioni enormi con un condizionamento d’aria che non consentiva di rimanere al loro interno per più di tre ore. Occorreva uscire fuori (dove faceva caldo) perché dentro era troppo freddo anche con il pullover. La stessa cosa negli autobus. A questo si aggiunga la situazione politica nazionale ben descritta dall’articolo di Naomi Klein tratto dal The Guardian e pubblicato sull’Internazionale il 4 Novembre 2022.
D’altra parte, cos’altro si poteva fare? Meglio provare ed impegnarsi per cercare soluzioni tecnico-scientifiche, politiche, esoprattutto sociali con chi partecipava alla COP27, per poi agire ciascuno nei paesi di provenienza.
Credo che queste sensazioni fossero comuni a tutti quelli con i quali ho parlato.
I primi dati sull’affluenza pubblicati da Carbon Brief indicano che più di 33.000 delegati si sono registrati per la COP27, ponendola al secondo posto delle conferenze più numerose nella storia delle COP.
Il secondo dato che emerge da questa analisi è la presenza record di partecipanti provenienti da nazioni africane (non a caso è stata soprannominata “la COP dell’Africa”), ma anche dai paesi a basso e medio reddito delle altri parti del mondo (Sud America, Asia).
Anche il numero di osservatori delle ONG (di cui facevo parte) è risultato il secondo più alto nella storia della COP.
Tutto questo perché il continente africano pur essendo il meno responsabile, è il più colpito dalla crisi climatica dal 2016, quando il Marocco ha ospitato la Cop22. Da allora la crisi climatica ha subito una fortissima accelerazione. I leader africani sperano che la sede della COP di quest’anno permetta di concentrare l’attenzione sul vasto e diversificato continente dove solo quest’anno 37 milioni di persone rischiano la fame dopo siccità consecutive nel grande Corno d’Africa. I 54 paesi africani insieme rappresentano il 15% della popolazione mondiale ma hanno contribuito per meno del 4% alle emissioni globali di gas serra.
Questi numeri, che riflettono le ingiustizie razziali ed economiche, hanno origini lontane, e non possono che giustificare tanta attenzione da parte di questi paesi per questa COP.
Tale impegno a far sentire la propria voce ha fatto si che malgrado i prezzi di soggiorno chiaramente gonfiati e incredibilmente alti (5000 euro per la permanenza di una settimana) e i grossi ostacoli dovuti alla sicurezza (strade bloccate senza preavviso, lunghe code dentro autobus – con i condizionatori al massimo- stipati di persone per seguire i tortuosi percorsi indicati dalla misure di sicurezza), già alle 8 di mattina c’erano file di persone lunghissime all’entrata. E per tutto il giorno fino alle 20 i padiglioni erano pieni di persone.
A quanto riportato dall’articolo non è stato possibile quantificare il numero di giovani, perché l’elenco dell’UNFCCC fornisce solo il nome e il titolo di ciascun partecipante registrato. Da notare che c’è stato un aumento significativo delle donne rispetto alle altre COP.
Scuramente però la componente giovanile era prevalente. Se non è possibile saperlo in termini quantitativi, certamente lo era in termini qualitativi. E questo a mio parere è il messaggio più forte e importante che emerge da questa COP27. Tra l’altro aggiungo che, nelle occasioni in cui ho avuto a che fare con dei gruppi, essi erano per lo più coordinati da giovani donne, che comunque erano di più degli uomini.
Tra questi giovani molti sono egiziani e in particolare i volontari che provengono da tutte le parti dell’Egitto e che assistono i partecipanti per i problemi più vari, informatici, nella scelta degli autobus, per l’assistenza medica e tanti altri. Sempre gentili ed efficienti e che parlano un corretto inglese.
In ogni caso, quello che mi ha maggiormente colpito in loro era l’impegno, la determinazione la precisione, e la disponibilità a collaborare. Era evidente che non si trattava solo di una condivisione di una idea, ma della percezione che non c’è scampo, occorre lavorare insieme, come diceva Antonio Gutierres nel suo discorso introduttivo.
Per tutti, e soprattutto per i giovani, questa è un’occasione per creare opportunità di collaborazione con altre persone che provengono da tutto il mondo con esperienze diverse e con tanto entusiasmo o se si vuole, disperazione (ho visto indigeni canadesi piangere mentre parlavano).
Per fare un esempio personale, ho conosciuto dei ragazzi dello Yemen e del Libano. Con loro stiamo discutendo di avviare un progetto sulla Educazione alla salute. Non so come andrà a finire, ma sicuramente cercherò di collaborare con loro su un loro progetto già in corso per l’assistenza sanitaria e l’educazione di bambini rifugiati provenienti dalla Somalia, l’Etiopia, l’Eritrea, Siria, il Sudan, la Palestina. Si pensi, lo Yemen è impegnato ad aiutare rifugiati di altri paesi. Spero che già solo questo possa dire qualche cosa a “qualcuno” e non solo ai nostri governanti, in Europa e soprattutto in Italia.
In definitiva queste collaborazioni consentiranno di sollecitare le coscienze delle persone e “pressare” le istituzioni. A mio avviso non sono i summit che contano, sono i contatti che si creano. Soprattutto tra i giovani.
Come diceva il Dr. Joe Vipond, Presidente della Associazione medici per l’Ambiente del Canada (CAPE), lo strumento più efficace per “mobilizzare” la gente è la gente.
Nei prossimi giorni fino al 18 Novembre, i giovani colleghi che si sono impegnati prima di questa Conferenza con la discussione, predisposizione dei documenti poi presentati ufficialmente alla Parti, porteranno avanti la negoziazione anche grazie all’arrivo di altri giovani che parteciperanno alla seconda settimana.
In conclusione vado via con un senso di speranza, tutta riposta in questi giovani. Loro non possono che fare meglio di noi anziani.